Intervista realizzata da Lampi di Stampa

D: Che cosa l’ha motivata a scrivere il libro?
R: Una ribellione. Il coro delle menzogne che le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno diffuso nei media, e di conseguenza nella società.  Una ben gestita confusione mediatica ha circondato le notizie su quegli avvenimenti, sulle motivazioni e sulle azioni degli Stati Uniti e delle loro forze armate. Il vizio antiamericano è stato una tirannia fuorviante, un lavaggio di cervelli operato da schermi TV, canali radio e giornali a grande diffusione (non è un problema soltanto italiano: in Gran Bretagna, o in Francia, o in Germania è anche peggio), sempre più antiamericani e antisraeliani, e in modi così accentuati da richiedere una spiegazione. Le deviazioni nel giudizio indotte dai media sono state così efficaci da divenire luoghi comuni, credenze condivise. Molti seguono per ignoranza, ma chi dirige il coro non è in buona fede.

D: Non le sembra di esagerare? Stiamo parlando di media liberi.
R: Sono liberi, ma orientati. Ovviamente non ignoro che i maggiori quotidiani, per esempio in Italia, sono anche tribune aperte, dove molte opinioni trovano posto. Ma l’impostazione generale della pagina estera, il titolo, il sottotitolo, la fotografia, la scelta di che cosa raccontare o di che cosa tacere, sono impostati e risentono delle connivenze con il mondo arabo-islamico. Del resto, sono le stesse scelte di chi controlla i licei, le università, i testi di storia, di chi ha orientato le menti di tre generazioni di studenti, di chi controlla molta parte della cosiddetta cultura, o del cinema, e molte altre cose ancora.

D: Crede che il problema sia la presenza islamica in Occidente?
R: Il problema è quello che la Fallaci definiva il collaborazionismo. L’Islam è una religione, e come tale deve avere il più assoluto rispetto. Però esiste un radicalismo islamico spostato dalla società alla politica, e proiettato su scala mondiale, secondo i dettati dell’antico espansionismo islamico, i cui ostacoli sono Israele e gli Stati Uniti. È questo che non dovrebbe trovare collaborazione ideologica in Occidente. Invece l’estremismo e anche il terrorismo hanno trovato molti compagni di strada. Si è diffusa una apologia di attentato alla nostra cultura e di denigrazione dei nostri valori. Ciò che ne risulta è un islamo-comunismo, che giustifica l’aggressione all’Occidente come un tempo giustificava le azioni dell’ex-impero sovietico, e che oggi vuole presentare il terrorismo come conseguenza di una oppressione che non esiste o della povertà, mentre il terrorismo è una ricca multinazionale. Se non lo fosse, la guerra in Iraq sarebbe finita nell’aprile 2003, con la caduta del regime di Saddam.

D: Nel libro Lei affronta l’argomento dell’immigrazione islamica, e in qualche modo ne parla come se fosse un’invasione organizzata. Non vede che le nostre società sono ormai multiculturali, in modo irreversibile?
R: L’immigrazione arabo-islamica è un’invasione, che ha modificato gli equilibri demografici, e presto modificherà quelli del welfare e quelli elettorali. Ciò vale, per esempio in Italia, sia per l’immigrazione illegale, sia per le quote assurdamente alte di immigrazione legale da taluni paesi arabi. Che ciò sia necessario al mercato del lavoro è una forzatura imposta all’opinione pubblica da chi ne ricava il vantaggio di pagare stipendi bassi e da chi vede negli immigrati la nuova massa di manovra politica (in assenza di un proletariato nazionale), il nuovo serbatoio elettorale. Beninteso, io non penso che gli immigrati siano più cattivi degli italiani; non ho dubbi che molti di loro (non tutti) meritino di trovare un lavoro e costruire una convivenza civile. Ma non è questo il punto. Il punto è che non c’è posto, non c’è aria, non c’è acqua per tutti, e che le conseguenze, dall’ordine pubblico alle minacce del terrorismo, sono gravi. In modo non dissimile, negli Stati Uniti gli ispanici che arrivano a milioni non sono, per lo più, cattivi o indegni; però stanno modificando gli equilibri culturali, e ormai anche politici, in una misura che non dovrebbe essere accettata. Come in Europa, anche in America non se ne parla molto; l’argomento è al tempo stesso esplosivo e tabù.

D: Nel suo libro, Lei è molto critico nei confronti delle scelte fatte dal governo Bush nel dopo 11 settembre. Sostiene che gli Stati Uniti dovevano andarsene dall’Iraq non cinque anni, bensì cinque settimane dopo la fine della guerra che rovesciò il regime di Saddam. Nel suo ripercorrere i tempi della crisi irachena, Lei condivide, fino a inizio 2007, le tesi di quanti in America chiedevano un ridispiegamento delle truppe USA e un disimpegno. Poi, però, critica gli attuali leader del partito democratico quando programmano un ritiro rapido delle truppe USA. Non le sembra una contraddizione?
R: No. Dobbiamo renderci conto che il 2008 non è il 2004 o il 2006. I successi militari USA, resi possibili dall’arrivo di nuove unità di combattimento e dalle tattiche anti-insurrezione attuate dal Generale Petraeus e dai suoi ufficiali a partire dal febbraio 2007, hanno modificato la situazione sul terreno. Quello che era un paese sull’orlo di una guerra civile è ora un paese avviato a una difficile ma consapevole ricostruzione. Il terrorismo islamico e al-Qaeda hanno trovato in Iraq una sconfitta di proporzioni storiche. Avevano concentrato in Iraq tutte le loro forze, facendovi affluire, per lo più attraverso la Siria, miliziani e aspiranti suicidi da ogni angolo del mondo, inclusa l’Europa (il che è stato un motivo importante della quasi totale assenza di attentati in Occidente). Avevano investito in Iraq enormi disponibilità finanziarie. Avevano fatto arrivare in Iraq, per lo più attraverso l’Iran, una quantità di esplosivi semplicemente incredibile, che si è aggiunta ai depositi lasciati dal regime saddamita. E hanno perduto. Il loro disegno di fare dell’Iraq un nuovo Afghanistan, cioè una base del terrorismo, è fallito. Persino il loro appello alle masse arabe ha perso lustro. I successi militari USA, straordinari e del tutto, sistematicamente, ignorati dai media, hanno sottratto intere regioni, e la stessa Bagdad, al controllo dei terroristi. Da oltre un anno, molte comunità tribali, tra i sunniti in particolare, hanno voltato le spalle ad al-Qaeda e iniziato a lavorare con gli USA e con le forze di sicurezza irachene. Però la situazione rimane fragile. Spetta al governo iracheno, ai politici di quel paese, alle autorità civili e religiose, rendere irreversibili quei successi. Per questo, nel 2008, il ritiro delle truppe USA deve tenere conto, come sta accadendo, delle realtà sul terreno.

D: Dunque non è finita?
R: No. La violenza è molto calata, il livello di sicurezza è molto cresciuto, ma vi sono ancora attentati, gli ordigni nascosti sulle strade ancora esplodono. Per un terrorismo di quelle proporzioni, non ci vuole molto a far scoppiare una bomba. Con un certo grado di terrorismo l’Iraq dovrà convivere a lungo. Inoltre, attualmente le milizie di al-Qaeda, messe in fuga da altre regioni, si sono concentrate nella provincia di Mosul, nel nord dell’Iraq, dove sono in corso operazioni per stanarle, con un ruolo crescente svolto dall’esercito e dalla polizia iracheni. Non è finita. Ma i cambiamenti in meglio sono stati enormi, spettacolari e decisivi.

D: Allora il governo Bush non ha sbagliato del tutto?
R: E’necessario chiarire, distinguere. Il mio libro è costruito sulla convinzione che la risposta dell’America all’11 settembre non è stata saggia, che il governo Bush ha ceduto alla provocazione, e che ha fatto dell’Iraq una situazione di logoramento del tutto deleteria. Quante volte, in questi anni, abbiamo pensato che agli iracheni bisognava lasciargli Saddam? Il progetto di cambiare regime in Iraq poteva essere un disegno forte, molto innovativo, ma doveva essere attuato in modo spregiudicato, cioè instaurando a Bagdad un governo amico, e magari orientato alla democrazia, ma non necessariamente una democrazia jeffersoniana. L’idealismo non sempre è adeguato; in alcuni contesti storico-geografici, di certo non lo è. Del resto, anche il cambio di regime in Afghanistan è stato un progetto che andava al di là della volontà di colpire al-Qaeda. Però, per arrivare alla conclusione che la risposta dell’America fu sbagliata è necessario prima respingere tutte le falsità, le imprecisioni strumentali, le distorsioni mediatiche che ci hanno afflitto in questi anni, da quella di una guerra in Iraq come guerra “per il petrolio” a quella di un un Bush descritto come un pistolero dal grilletto facile, da quella di misure anti-terrorismo che metterebbero a rischio le libertà civili in Occidente a quella di un terrorismo iracheno come reazione a un’occupazione straniera, a molte altre. Per quanto riguarda Bush, io lo critico molto e lo considero inadeguato ad affrontare le difficoltà senza precedenti di questi anni; però bisogna riconoscere che il rinnovato impegno in Iraq deciso da Bush alla fine del 2006, nel momento più difficile, è stato un successo. Anche se il merito va ai generali, ai colonnelli, ai capitani, ai sergenti, ai soldati, che hanno messo in atto la strategia, e lo hanno fatto con straordinaria dedizione, duttilità, coraggio e competenza.

D: Lei rivendica il merito di aver fatto, su questi argomenti, delle affermazioni in anticipo sui tempi. A che cosa si riferisce?
R: Io ho scritto nell’autunno 2007, quando ancora nessuno lo scriveva, che gli USA avevano vinto quella battaglia difficile, quasi impossibile, che è stato il dopoguerra iracheno, dopo aver vinto nel marzo-aprile 2003 la guerra contro il regime di Saddam. Ho scritto che la situazione era cambiata, che il terrorismo aveva perduto la battaglia dell’Iraq, quando la consegna, nei media, era di far calare sull’Iraq il grande silenzio. Questo silenzio, che è stato una sottile menzogna, non soltanto ha obliterato i successi, pressoché quotidiani, delle truppe USA contro il terrorismo, ma ha favorito le paurose deviazioni di un’opinione pubblica che si ritiene informatissima ma che, della guerra in Iraq, non sa niente. Per esempio, in Italia, le opinioni sulla guerra in Iraq sono ferme a quelle elaborate nel periodo della guerra contro Saddam, e addirittura nel periodo ante-guerra: a quella contrapposizione tra pace e guerra, così falsamente proposta e strumentalizzata. Di ciò che accade ogni giorno in Iraq, nessuno sa nulla, perché i media non ne parlano, o parlano di Iraq soltanto quando scoppia una bomba.

D: Però, secondo molti, la violenza che vi è stata in Iraq è comunque una prova del fallimento del progetto americano di cambio di regime.
R: Guardi, in Iraq a partire dall’aprile 2003 si sarebbe potuto non sparare più un solo colpo di fucile. L’Iraq era un paese liberato e che poteva guardare al futuro. Non si sparò un colpo di fucile nella Germania o nell’Italia liberate, o in Giappone. Sono stati il terrorismo e, in una prima fase, la reazione nazional-tribale, a fare dell’Iraq il campo di una sanguinosa battaglia. Il Pentagono aveva programmato un ritiro pressoché completo dall’Iraq nel corso di pochissimi mesi. Da cinque anni, gli Stati Uniti non vedono l’ora di andarsene dall’Iraq: non lo hanno fatto perché hanno accettato le responsabilità di grande potenza, e perché il mondo intero gli ha chiesto di non farlo, a cominciare dagli stati arabi di governo moderato. Lei ha mai sentito l’Europa, o la Cina, o l’ONU, chiedere il ritiro delle truppe USA? Del resto, non lo ha sentito chiedere, quel ritiro, nemmeno da parte dei partiti antiamericani, per esempio in Italia dalla coalizione cosiddetta arcobaleno (mi consenta una digressione: perché arcobaleno? l’arcobaleno non appartiene a loro; abbiamo fatto finta di non vedere con la quercia, poi l’ulivo; ma adesso… l’arcobaleno è quello di Lawrence, della nostra infanzia, appartiene alle nostre vite, non a loro – chiusa la parentesi, e scusi la digressione).

D: Nel suo libro Lei accusa le istituzioni internazionali, gli stati arabi, ed altre nazioni, di non essere intervenuti in Iraq, in questi anni, con compiti di nation building.
R: Certamente, dopo la fine della guerra nell’aprile 2003, dovevano essere l’ONU e le nazioni più interessate alla stabilità del Medio Oriente, sia asiatiche sia europee, a intervenire per imporre la pace tra le fazioni etniche e ricostruire lo stato. In particolare, la presenza degli stati arabi avrebbe fatto la differenza. Tutto questo non è avvenuto, e non soltanto a causa dei difetti della diplomazia di Bush.

D: Quali altre anticipazioni rivendica?
R: Per restare nella stretta attualità, io ho scritto, quando nessuno lo scriveva, cioè all’inizio di gennaio 2008, che una presidenza Obama sarebbe tutt’altro che unificante per l’America, e che comporterebbe conseguenze, o comunque rischi, del tutto imprevedibili. Rischi di interventismo umanitario su scala mondiale, di indebolimento militare, di avventate decisioni in Iraq, di smantellamento di quelle strutture legislative e di intelligence contro il terrorismo, all’interno dei confini americani, che sono la cosa migliore fatta dal governo Bush. E prima di tutto il rischio di una reazione in America. Sarà il candidato democratico a ottenere la presidenza. E né le suggestioni retoriche, né la mitologia del cambiamento come valore in sé, né il colore della pelle (Obama vince perché è un uomo di pelle nera, mentre altri personaggi, da Colin Powell alla Rice, hanno raggiunto posizioni di preminenza nonostante il colore della pelle) sono sufficienti, anche se suscitano entusiasmi da concerto rock. Ma se vuole parlare di anticipazioni, ci metta anche di aver indicato McCain come candidato repubblicano, quando la corsa del vecchio Mac sembrava finita, tra assenza di fondi e altro.

D: Vi è nel suo libro un lato dolente, più intimo, meno analitico.
R: Il libro è anche una memoria dei sacrifici compiuti. Molte cose sono accadute, in Iraq e in Afghanistan molti sacrifici sono stati compiuti, e non devono andare perduti nella memoria storica. Anche la nostra riflessione, le nostre passioni, non devono disperdersi del tutto. Questa è stata un’altra motivazione, molto forte, che mi ha fatto scrivere il libro. Troppo è andato perduto: lo spreco di vite dei soldati USA è stato intollerabile. Era necessario fermare, ricordare, onorare chi è morto anche per noi, per difendere il benessere a cui teniamo tanto: quei ragazzi arrivati dall’America profonda, rurale, da piccole comunità (non dalle strade delle grandi città), a liberare, e non ad occupare, un paese arabo, motivati come tanti Robin Hood attrezzati per regolare i torti, e capaci di accettare il sacrificio come i loro padri e nonni avevano accettato di gettarsi su una spiaggia della Normandia per venire a liberare l’Europa.

D: La dimensione prevalente del suo libro è storica, di analisi storica. Però insieme alla ricostruzione vi è il diario drammatico; insieme all’economia, agli studi strategici, alla dottrina militare, ci sono le passioni politiche, l’attenzione ai problemi ambientali (che Lei giudica prioritari e urgentissimi), i giudizi impietosi sulle scelte dei governi. Tra l’altro, del governo italiano uscente. Che cosa rimprovera, in relazione agli argomenti trattati nel libro, al governo Prodi?
R: Di essersi fatto condizionare su due temi cruciali dagli estremisti che hanno tenuto in piedi quel governo per quasi due anni. Il primo è quello della politica sull’immigrazione, che era inadeguata anche in precedenza, ma che è precipitata con gravi decisioni legislative come quella di concedere, a tutti, la cittadinanza dopo cinque anni, o quella, orribile e vile verso gli italiani, di non richiedere alcun visto per soggiorni fino a tre mesi, che è lo strumento perfetto per perdere le tracce di clandestini e sospetti. Il secondo tema è quello delle scelte fatte in Afghanistan, dove (alla pari di altri tre paesi europei) il contingente italiano deve tenersi al di fuori delle zone di combattimento in cui è impegnata la NATO, mentre viene mantenuto in condizioni di quasi indigenza per mancanza di fondi e armamenti adeguati, come accade in generale in Italia alle forze armate e alla polizia (quanto ai servizi segreti, si è cercato invece di smantellarli). Benché il lavoro delle nostre truppe sia comunque molto utile e ben visto, l’obbligo di evitare le zone di guerra è una scelta lesiva della professionalità sempre dimostrata dai contingenti italiani in situazioni analoghe, ed è una scelta improponibile all’interno di un’alleanza militare, dove non è possibile dire agli altri: andate avanti voi. Ed è difficile non menzionare l’operato disonorevole del governo Prodi in occasione della liberazione del giornalista di Repubblica sequestrato dai talibani, non solo con il pagamento di un riscatto (strada, peraltro, già praticata dal governo italiano precedente, che non era di sinistra), ma con le pressioni esercitate, secondo quanto dichiarato dal presidente afghano Karzai, per la scarcerazione di cinque pericolosi terroristi.

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